Questo non si può dire
- Luca Gabriel Mazzoli
- 21 feb 2023
- Tempo di lettura: 4 min
1 marzo 2022
Foucault (1926-1984) nell’Ordine del discorso sostiene che nella nostra società il discorso sulla sessualità e quello sulla politica sono interdetti. Foucault affermava ciò nel 1970, ora a mio avviso la questione è diversa, ma resta comunque fecondo seguire le tracce foucaultiane.
«In ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata, organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la funzione di scongiurarne i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l'evento aleatorio, di schivarne la pesante, temibile materialità. In una società come la nostra si conoscono, naturalmente, le procedure di esclusione. La più evidente, ed anche la più familiare, è quella dell' interdetto. Si sa bene che non si ha il diritto di dir tutto, che non si può parlare di tutto in qualsiasi circostanza, che chiunque, insomma, non può parlare di qualunque cosa». Foucault delinea in prima battuta i dispositivi di controllo dei discorsi, che la società mette in atto per rendere possibili alcuni discorsi e per escluderne altri. Vi sono enunciati che sono conformi alle pratiche che frequentiamo nella nostra società, i quali si pongono al servizio dei dispositivi di potere, che a loro volta assoggettano – ci rendono soggetti a tali dispositivi - ma allo stesso tempo soggettivano – ossia fanno di noi dei soggetti delle pratiche stesse. Pensate per esempio al dispositivo della lingua italiana. Da un lato siamo assoggettati al dispositivo della lingua, perché dobbiamo parlare secondo le regole della lingua italiana: non possiamo inventarcele per essere capiti. Dall’altra parte l’esercizio lingua, nelle comunità in cui nasciamo, con le proprie regole e con la propria grammatica scrivono dentro di noi l’anima che siamo, poiché ci dà la possibilità di raccontarci la nostra storia sensatamente, ci concede la capacità dell’autobiografia, cioè ci dice ciò che di noi possiamo raccontare, ci fa i proto-agonisti della nostra storia richiamata in un discorso.
I discorsi non solo dicono, ma anche interdicono, cioè bloccano, non permettono il passaggio ad alcuni modi di esprimersi. Le pratiche discorsive sono i modiche abbiamo per esprimere qualcosa di significativo, che ereditiamo dal tempo dell'infanzia e dal contesto sociale e comunitario in cui viviamo. Foucault conclude dicendo: «Noterò solo che, ai nostri giorni, le regioni in cui il reticolo è più fitto, in cui si moltiplicano le caselle nere, sono le regioni della sessualità e della politica: come se il discorso, lungi dall'essere l'elemento trasparente o neutro nel quale la sessualità si placa e la politica si pacifica, fosse uno dei siti in cui esse esercitano, in modo privilegiato, alcuni dei loro più temibili poteri. Il discorso, in apparenza, ha un bell’essere poca cosa, gli interdetti che lo colpiscono rivelano ben tosto, e assai rapidamente, il suo legame col desiderio e col potere. E non vi è nulla di sorprendente in tutto questo: poiché il discorso - la psicanalisi ce l'ha mostrato - non è semplicemente ciò che manifesta (o nasconde) il desiderio; e poiché – questo la storia non cessa di insegnarcelo - il discorso non è semplicemente ciò che traduce le lotte o i sistemi di dominazione, ma ciò per cui, attraverso cui, si lotta, il potere di cui si cerca di impadronirsi». Foucault vede la politica e la sessualità come i campi su cui si esercita il potere dell’interdizione discorsiva. Il discorso è interdetto nella politica e nella sessualità, per cui in tali ambiti non tutto si può dire in ogni circostanza.
Abbiamo preso le mosse da Foucault per vedere come i discorsi esprimano la loro potenza anche nel gioco del silenzio di certi enunciati rispetto ad altri.
Dal mio punto di vista oggi nella nostra società c’è un discorso che è interdetto più di tutti: nella nostra società non si può non godere. Il godimento non può non essere raggiunto. È il godimento a muovere il mondo del mercato globale, in cui siamo immersi, e a cui ci rivolgiamo, non appena abbiamo bisogno di qualcosa. La nostra società impone il divieto di non godere . In ogni nostra azione siamo spinti a dover sempre godere di ciò che ci accade, pensate che su questo principio si basa ogni propaganda politica e ogni campagna pubblicitaria. Il nostro mondo, in cui l’economia di mercato per lo più sorregge le nostre vite da cima a fondo, esibisce l’obbligo di godere dei prodotti. Senza godimento non c’è consumo, senza consumo non c’è profitto, e senza profitto non c’è accumulazione del capitale. L’etica economica del capitalismo vive attraverso il godimento del cliente nel consumo della merce. L’inevitabile effetto è la capitalizzazione del godimento, ragion per cui il discorso sul non raggiungimento del godimento è interdetto pressoché a chiunque nella nostra società: non ne sappiamo parlare e non sapremmo neanche da dove cominciare. Ecco che in quella che sembra la democrazia economica del mercato dove ognuno è libero di comprarsi ciò di cui ha bisogno per godere, in realtà si palesa la dittatura del godimento imposta dall’etica consumistica. Lo schiavo del godimento pensa: “È un sistema che ci fa godere, come non amarlo? Perché mai fuggire?”.
È questo un tema a mio avviso di profonda attualità difficile da discutere, perché il nostro discorso incontra un luogo di vuoto in questo campo, e la soluzione a mio avviso non può che rimanere aperta e aporetica, ma penso che il viatico preso a tema per quest’anno possa dare uno spunto di riflessione importante per iniziare a pensare il problema: «la Dittatura perfetta avrà la sembianza di una democrazia. Una prigione senza muri nella quale prigionieri non sogneranno di fuggire. Un sistema di schiavitù dove, grazie al consumo, al divertimento gli schiavi ameranno la loro schiavitù»
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